Ai tempi della prima immigrazione, quella per la quale anche io, seguendo la mia famiglia, sono venuto al Nord, esisteva una specie di complesso di inferiorità per cui chi si trasferiva dal Sud cercava in tutti i modi di adeguarsi a quella che percepiva come la modernità, diversità di modi di agire, di pensare e anche di mangiare. Anche io negli anni Ottanta, arrivato a Torino, anzi a Santhià, dove tuttora vive mia madre, cercavo di essere moderno. Solo che non mi riusciva, e non mi piaceva proprio. Come la granita che si mangiava lì. Quello che avevo trovato era un Nord poco accogliente, decisamente impermeabile all’osmosi tra culture e abitudini e gusti profondamente italiani ma anche spesso profondamente dissimili. Così, la mia integrazione è stata l’educazione familiare. Se non ci fosse stata, forse mi sarei ribellato e sarei diventato quello che in qualche modo altri erano, e che incarnava il modello “negativo” di meridionale, quello che gli altri disegnavano. Mia madre, mia nonna, mi hanno educato attraverso il gesto domestico, una sorta di cura che sa di saperi antichi e non detti, conoscenza dell’ingrediente e dei sapori, della stagionalità fatta dall’ortolano che ti bussava a casa, di abitudini semplici: […]