Il primo trauma, la granita

Il primo trauma, la granita

Ai tempi della prima immigrazione, quella per la quale anche io, seguendo la mia famiglia, sono venuto al Nord, esisteva una specie di complesso di inferiorità per cui chi si trasferiva dal Sud cercava in tutti i modi di adeguarsi a quella che percepiva come la modernità, diversità di modi di agire, di pensare e anche di mangiare.
Anche io negli anni Ottanta, arrivato a Torino, anzi a Santhià, dove tuttora vive mia madre, cercavo di essere moderno.
Solo che non mi riusciva, e non mi piaceva proprio. Come la granita che si mangiava lì.
Quello che avevo trovato era un Nord poco accogliente, decisamente impermeabile all’osmosi tra culture e abitudini e gusti profondamente italiani ma anche spesso profondamente dissimili.
Così, la mia integrazione è stata l’educazione familiare. Se non ci fosse stata, forse mi sarei ribellato e sarei diventato quello che in qualche modo altri erano, e che incarnava il modello “negativo” di meridionale, quello che gli altri disegnavano.
Mia madre, mia nonna, mi hanno educato attraverso il gesto domestico, una sorta di cura che sa di saperi antichi e non detti, conoscenza dell’ingrediente e dei sapori, della stagionalità fatta dall’ortolano che ti bussava a casa, di abitudini semplici: la fettina di carne quando eri malato, le polpette al sugo la domenica mattina, le scale piene degli odori del ragù che rendevano gli androni la quintessenza del desiderio e che evocavano, nel ricordo, un’idea fortissima di famiglia.
Mi hanno trasmesso la cura del particolare, la pre-occupazione del benessere dell’altro. Mia nonna ad esempio non mi faceva uscire di casa se non avevo il fazzoletto di stoffa in tasca, ben riposto e ben stirato. Un vero incubo perquisitorio mi bloccava sull’uscio, per la verifica della sua presenza. Una specie di amuleto dell’affetto, l’unica protezione simbolica che la famiglia poteva offrire, a volte, contenuta in quel quadrato di stoffa. Un rimedio contro la vergogna e le figuracce verso gli estranei, un conforto per le lacrime che sarebbero potute arrivare, l’orgoglio della semplicità.
Io poi, che sono cresciuto proprio con mia nonna, potrei quasi dire di essere nato come lei nel 1911 tanto mi porto addosso i suoi insegnamenti e la sua quotidiana aderenza alla vita.
E questo percorso di cura e di accudimento è lo stesso che io metto per arrivare a un piatto. Facendomi domande, tornando all’essenziale, togliendo il superfluo, regalando il ricordo. Se è vero che crescere significa chiedere perché, significa chiedere cose che nessuno ti racconta, significa scoprire, è altrettanto vero che crescere è anche, o forse soprattutto, riscoprire. Per questo l’ingrediente principale dei miei piatti è la memoria, per questo per me la cucina è un regalo che le persone fanno a se stesse e ai loro ricordi.